Il popolo Rom è da sempre il grande protagonista del commercio in tutte le latitudini della terra. Di più, storicamente nomadismo e commercio sono stati dei sinonimi.
di Aleramo Virgili
Vicepresidente Rete ONU – Rete Nazionale Operatori dell’Usato –[1]
in Quaderni di informazione Rom e Sinti Nov/Dic 2013 – Istiss editore – UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Raziali)
“Tutti gli anni, verso il mese di marzo,
una famiglia di zingari cenciosi
piantava la tenda vicino al villaggio,
e con grande frastuono di zufoli e tamburi
faceva conoscere le nuove invenzioni”[2]
In questo passo del suo capolavoro Gabriel Garcia Marquez fa conoscere al mondo intero il ruolo di cerniera che molto spesso i popoli nomadi, ed in particolare il popolo Rom, hanno svolto tra la città e la campagna, tra la staticità dei piccoli centri e la modernità delle grandi città.
Il popolo Rom è, infatti, da sempre il grande protagonista del commercio in tutte le latitudini della terra. Di più, storicamente nomadismo e commercio sono stati dei sinonimi.
Con il passaggio dal nomadismo alla sedentarietà avvenuta nell’est europeo immediatamente dopo la seconda guerra mondiale e da noi in tempi più recenti, il commercio da parte di queste comunità ha assunto un valore diverso. Non più vendita di manufatti artigianali in rame come utensili per la cucina o in ferro per l’agricoltura, ma un’attività di recupero di cose usate per il riutilizzo.
Si va dai materiali ferrosi da rivendere agli sfasci all’abbigliamento usato, modernariato, oggetti da collezionismo ed oggettistica varia da vendere ai margini dei mercatini ufficiali o in mercatini informali interamente gestiti da queste comunità.
Con il tempo e su richiesta degli acquirenti (solitamente commercianti essi stessi) alcune comunità Rom si sono specializzate nel recupero di merci particolari come vecchi dischi, fumetti, stampe e pezzi di archeologia elettronica e meccanica. Altre, con incredibile abilità manuale, alla rimessa in funzione di antichi apparecchi stereo, radio e televisori.
Il sistema di approvvigionamento di questi materiali va dallo sgombero di locali, allo svuotamento di cantine e soffitte, alla donazione e all’alienazione di materiali tecnologicamente superati, al frugamento di cassonetti e all’intercettazione dei beni conferiti presso le isole ecologiche e i centri di raccolta. Questo silenzioso e laborioso esercito di raccoglitori entra così in possesso di un’enorme quantità di beni usati dirottandoli così dal mondo del rifiuto a quello del riutilizzo. Un’azione dai risvolti molto importanti a livello ambientale, economico, culturale e sociale.
A livello ambientale si riduce progressivamente la massa di rifiuti composta da beni riutilizzabili facendo così un servizio al nostro ecosistema.
Nella sola città di Roma questa pratica virtuosa permette ogni anno il riuso di almeno 10 milioni di oggetti. Una vera e propria montagna di potenziali rifiuti che senza l’intervento dei rigattieri sarebbe finita in discarica diventando percolato inquinante del ciclo dell’acqua e biogas responsabile del surriscaldamento dell’atmosfera, oppure sarebbe stata incenerita producendo ceneri tossiche e disperdendo nell’aria diossine e polveri sottili o, infine, sarebbe stata riciclata (come ipotesi migliore), con l’impiego di energie non rinnovabili e generando scarti di produzione.
A livello economico l’attività di riutilizzo è sempre più una speranza di vita per soggetti che non hanno molte altre possibilità di accedere al mondo del lavoro, sia in riferimento al capitale iniziale necessario sia alle specifiche competenze. Spesso assistiamo a migranti, disoccupati, precari, pensionati, studenti che svolgono questa attività come unica fonte di reddito o per integrare un reddito basso.
A livello culturale l’usato è anche la nostra storia recente e passata, non gettarlo, ristrutturarlo e renderlo ancora vivo e utile è una grande operazione di conservazione e recupero della nostra storia, tradizione e cultura.
A livello sociale attorno all’attività di riutilizzo assistiamo all’incontro di culture e saperi diversi e sensibilità che mettono in comunicazione mondi altrimenti sconosciuti e separati: una pratica sociale da valorizzare.
Purtroppo questa pratica, che vede nel riutilizzo di beni destinati a diventare rifiuti una risorsa, negli ultimi anni è sempre più difficile da esercitare.
Infatti, un decennio di “buone pratiche” di regolarizzazione di mercatini del riutilizzo e raccolta di materiali ferrosi e rifiuti ingombranti (esemplificative le “buone pratiche” di Mestre, Roma e Reggio Calabria) rischia di finire definitivamente nel dimenticatoio, nonostante le attività di riutilizzo operate dalle Comunità rom raggiungano un volume ed un valore ambientale, economico, sociale e culturale che non sarà possibile occultare a lungo.
Sicuramente, accanto ad altre, saranno queste le attività virtuose che garantiranno a questo popolo un futuro di integrazione economica e sociale e una vita più piena e degna di essere vissuta. L’attività di recupero e riutilizzo praticata dai Rom è aumentata in modo considerevole anche negli ultimi anni, soprattutto grazie al lavoro delle ultime comunità che si sono inserite in questo settore (rumene e bulgare).
Ma nonostante il grande servizio che i Rom rendono all’ambiente e le innovazioni normative nazionali ed europee che sanciscono l’importanza delle reti locali del riutilizzo, non é ancora registrabile da parte delle amministrazioni locali e centrali nessun vero segnale che miri alla regolarizzazione del fenomeno. Mentre le presenze di rigattieri rom all’interno dei mercati regolari sono sempre più sporadiche (pur rimanendo significative), i mercati spontanei (veri e propri fiumi carsici) sono sempre più sottoposti a sgomberi, multe e al sequestro delle merci. Gli operatori dell’usato rom sono sotto attacco in tutta Italia: nei mercati delle periferie romane come nel centrale e famoso mercato di Porta Portese; nel mercatino dell’usato vicino lo stadio San Nicola di Bari[3] così come nel mercato di Bonola (Milano.)[4] e quello di Piazza Garibaldi a Napoli[5]. Nonostante i problemi di pulizia o decoro che sono principalmente attribuibili alla mancanza di adeguate regole nell’approvvigionamento e nell’esposizione delle merci, non c’è dubbio che in tema di riutilizzo il segmento dei Rom é tra i più virtuosi e lungimiranti.
Il 7 Maggio del 2011, il Corriere del Mezzogiorno, in piena emergenza rifiuti a Napoli, riportava le dichiarazioni degli oncologi Antonio Marfella e Giuseppe Comella, che all’interno di una relazione preparata per l’Isde –Associazione Medici per l’Ambiente – non esitano ad affermare che i Rom sono gli unici ad aver compreso «la ricchezza diffusa che potrebbe provenire dall’Oro di Napoli: i rifiuti urbani», poiché sono in grado di recuperare fino al 90% dei mucchi di spazzatura che si trovano a rovistare ai lati delle strade.
Anche se oggettivamente “ambientalista”, per i Rom la pratica del riutilizzo rimane profondamente e principalmente un’attività “economica” che fa di loro il vero primo anello della filiera dell’usato e grazie alla vendita di merci usate, circa il 10% di questa Comunità riesce ad avere un lavoro e un reddito onesto. Se negli anni ‘80 le Comunità dell’ex Yugoslavia avevano determinato un forte ribasso sul mercato dei prezzi dell’usato imponendo una ristrutturazione delle attività degli altri rigattieri (italiani e migranti di altre etnie), attualmente questa dinamica é prodotta dai Rom rumeni e bulgari. Questi ultimi riescono ad adottare prezzi bassissimi a causa di una molteplicità di fattori, tra i quali soprattutto il frequente insediamento in luoghi urbani che si trovano a ridosso dei mercati; una vicinanza che riduce le spese legate alla ricerca delle merci e al loro trasporto (sia rispetto all’usato da vendere al mercato sia ai materiali ferrosi da vendere ai rottamatori).
Le attività di riutilizzo praticate dalle Comunità rom non sono monolitiche e presentano sfaccettature e diversità anche molto importanti: si va dai “rovistatori” che recuperano oggetti dai cassonetti (soprattutto quelli localizzati in zone popolari) agli svuota cantine che sgomberano cantine e soffitte fino alle donazioni di beni tecnologicamente superati da negozi e magazzini, o libri da biblioteche, librerie e privati. Al loro fianco ci sono gli eredi dei “ferrivecchi”, che laboriosi come formichine spalmano la loro attività su tutto il territorio cercando materiali ferrosi da rivendere ai rottamatori per qualche centesimo di euro al chilo. Quest’ultima tipologia di operatore é attualmente la più tartassata, con multe di migliaia di euro e frequenti sequestri dei mezzi e dei materiali raccolti.
Anche nel settore dei “ferrivecchi” la normativa è molto farraginosa e controversa. A tal proposito é illuminante un recente articolo dell’avvocato Marilisa Bombi “Cenciaioli e ferrivecchi: Condannati al carcere dalla semplificazione”[6] che nella sua conclusione così afferma: “Sarebbe quanto mai necessario un intervento del legislatore di modifica della disposizione in materia ambientale, nel senso che l’articolo 266, comma 5, del D.Lgs. 3 aprile 2006 n. 152, Norme in materia ambientale, dovrebbe essere modificato nei termini qui di seguito indicati: Le disposizioni di cui agli articoli 189, 190, 193 e 212 non si applicano alle attività di raccolta e trasporto di rifiuti effettuate dai soggetti iscritti al registro imprese, per l’attività già disciplinata dall’art. 121 del Testo unico di pubblica sicurezza ed abrogato dall’art. dall’art. 6, D.P.R. 28 maggio 2001, n. 311, limitatamente ai rifiuti che formano oggetto del loro commercio”.
I pijats romanò a Roma[7]
A Roma da molti anni (e più precisamente dal 2002 con l’entrata in vigore delle nuove norme sull’immigrazione, la cosiddetta legge Bossi-Fini) due cooperative[8]sono state molto attive nel cercare di individuare un percorso di regolarizzazione per le attività lavorative dei raccoglitori informali rom. Questo garantiva innanzitutto la possibilità alle Comunità rom di svolgere onestamente un utile lavoro per tutta la città e di dimostrare lo svolgimento di un’attività lavorativa legale e conseguentemente un reddito, condizioni entrambe necessarie al rinnovo del loro titolo di soggiorno.
In parte questo obiettivo è stato raggiunto attraverso l’istituzione dei pijats romanò (mercatini rom), nei quali i Rom possono commerciare oggetti usati e manufatti artigianali tipici.
Nell’intenzione dei promotori, i pijats romanò non sono solamente un’occasione economica per i Rom, ma anche un momento di incontro con la cultura romanì. A tal fine sono state promosse all’interno dei mercati delle attività culturali come la danza, la musica, la lavorazione dei metalli, la predizione del futuro attraverso la lettura dei fondi di caffè o della mano e mostre storico documentarie.
I mercatini rom hanno attraversato fasi alterne. Il leitmotiv ha riguardato da una parte la carenza di spazi a fronte di una domanda crescente dei Rom; dall’altra la normativa di riferimento che regola le “manifestazioni di collezionismo amatoriale dell’antiquariato, artigianato e cose usate” è molto restrittiva e farraginosa per quanto riguarda la possibilità di replicare l’iniziativa e partecipare alla stessa[9].
I primi mercati rom autorizzati li troviamo negli anni ‘90 a Spinaceto (XII Municipio), a Casilino 700 e a Piazza San Felice da Cantalice (VII Municipio). La data di nascita ufficiale dei pijats romanò è segnata dal nuovo millennio, anno nel quale è inaugurato il mercatino domenicale di Via di Casal Tidei (V Municipio). Questo primo mercato stabile ed autorizzato non era specificamente dedicato alle Comunità rom: infatti, insieme a loro vi erano anche rigattieri italiani e di altre nazionalità.
Gli espositori rom erano circa 300 e provenivano da tutte le Comunità della capitale.
L’esperimento, durato circa tre anni, è stato sospeso a causa dell’enorme numero di espositori rom che affluivano anche nei giorni non stabiliti. Da un’altra ottica, quest’affluenza è – all’opposto – indirettamente indicativa dell’importanza dell’attività attuale dei Rom nella linea dei rifiuti e di quella, ben più rilevante, che potrebbero avere in prospettiva se valorizzata adeguatamente.
Per risolvere il problema nato a Casal Tidei, gli organizzatori e le istituzioni hanno preferito il passaggio da un’esperienza unitaria (con tutti i Rom di Roma) una riproposizione dei mercatini a livello di singolo municipio in cui i Rom potevano esporre solo nel municipio di appartenenza. Una fatica di Sisifo se si pensa come le Comunità rom siano solite non concepire i confini continentali e nazionali, figuriamoci quelli municipali. Comunque, adottando questa modalità, la cooperativa Romano Pijats è riuscita a gestire due progetti annuali di impiego di volontari in servizio civile e cinque mercatini dell’usato nella periferia romana: Collatina, La Rustica, Tor Bella Monaca, Magliana e Ponte Marconi.
I problemi sono arrivati con la ristrutturazione di Porta Portese nel 2007, allorquando molti rigattieri rom ed italiani e di altre nazionalità furono espulsi dal mercato.[10] Ciò ha creato molti problemi nella gestione degli altri mercatini autorizzati. Infatti, si sono riversati in questi, gli espositori cacciati da Porta Portese con il blitz operato dalle Forze di Polizia Municipale nella notte tra il 23 e il 24 settembre 2007. Concepito per bloccare i ricettatori di oggetti rubati e i commercianti abusivi che assediavano la zona, portò all’allontanamento dal mercato domenicale di Porta Portese di quasi 700 rigattieri che frequentavano il mercato da oltre trent’anni, i quali furono sanzionati con multe fino a 5mila euro perché privi delle necessarie autorizzazioni comunali. Cosa paradossale se si pensa che il Mercato di Porta Portese era (e ancora oggi lo è!) abusivo…
La conseguenza indiretta dell’espulsione di questi rigattieri da Porta Portese fu il riversamento di questi ultimi nei mercatini rom nelle settimane successive. Tale avvenimento, contestualmente ad un clima di “allarme sicurezza” coinciso con il rinnovo della giunta municipale provocò la sospensione delle autorizzazioni nei restanti Municipi.
Questa chiusura ha avuto come conseguenza la riedizione di vecchi fenomeni di abusivismo, di occupazione arbitraria di spazi, di compravendita di postazioni e, in definitiva, lo sfruttamento degli espositori più indifesi, taglieggiati e sottoposti a qualsiasi tipo di vessazione.
Dopo le elezioni comunali, l’esperienza dei mercatini Rom è stata replicata in Via Longoni (VII Municipio), in via della Vasca Navale (XI Municipio) e in Piazzale Ennio Flaiano (IV Municipio). Anche in questi casi l’istituzione dei mercati non è stata pacifica. Infatti, a fine 2009, tutte le autorizzazioni e le esperienze legali di mercatini rom sono terminate.
Il risultato di queste vicende è che la maggior parte dei rigattieri rom di Roma è in questo momento priva di un mercato ufficiale e legale di riferimento. Tuttavia l’attività di vendita di merci usate è, a dispetto di tutto, una fonte di reddito importante per moltissime famiglie. Ragion per cui moltissimi Rom la praticano tuttora in modo abusivo. Notte tempo, i mercatini Rom spuntano come funghi. Alcuni sono stabilmente abusivi ma tollerati altri invece rudemente repressi.
Oltre ai pijats romanò, è utile accennare ad un progetto che prevedeva il coinvolgimento dei Rom nella raccolta dei rifiuti ingombranti. Nel 2005-2006 Comune e Provincia di Roma, Ama e Caritas Diocesana, (in continuità con un’esperienza analoga avvenuta nel 2003) lanciarono il progetto “Roma Cistì – Roma Pulita”, il quale affidava alla cooperativa sociale rom “Praliphè” il compito di raccogliere i rifiuti ingombranti e ferrosi sul territorio comunale e, in futuro, anche in quello provinciale. I Rom coinvolti in regime di part-time furono 8, per un periodo di tempo di un anno. Il progetto, nonostante i risultati positivi e l’entusiasmo dei partecipanti, non è stato rifinanziato.
Una buona pratica da estendere: il mercato ViviBalon di Torino.
L’Associazione ViviBalon nasce nel 2001 per aggregare operatori del mercato del Balon e residenti nell’area dove si svolge il mercato. Lo scopo principale dell’associazione è promuovere socialità e partecipazione, contribuendo alla riqualificazione e allo sviluppo sociale ed ambientale del mercato del Balon che si caratterizza come parte integrante del patrimonio storico e culturale della Città di Torino.
Inoltre, ViviBalon vuole tutelare lo spirito originario del mercato del Balon, contribuendo ad affermarne la cultura alla luce dei principi di legalità e al tempo stesso rappresentare il luogo di confronto e scambio tra i cittadini che, a vario titolo, rappresentano i diversi interessi presenti nel mercato del Balon, operando per il miglioramento delle condizioni generali del territorio. Oggi l’Associazione ViviBalon gestisce il mercato delle “pulci” del sabato, con più di 400 espositori, tra cui molti Rom. Questo grazie alla lungimiranza dell’Amministrazione della Città di Torino che ha istituito con apposita delibera, un’area di libero scambio per operatori dell’usato. Rimane questa sicuramente l’esperienza più avanzata a livello nazionale ed una buona pratica da estendere.
[2] G. G. Marquez, Cent’anni di solitudine
[3] http://www.barinedita.it/inchieste/n212-frutta-dvd-porno-e-cani–benvenuti-nel-mercatino-domenicale-del-san-nicola
[5]http://napoli.repubblica.it/cronaca/2013/08/05/news/suk_di_piazza_garibaldi_il_mercato_dell_immondizia-64310520/
[7] Pijats (pijats =mercato nella lingua romanì – zingara -) romanò (dei Rom e dei Sinti)
[8] Cooperativa Phralipè – Fraternità e Cooperativa Romano Pijats
[9] Non più di 2 domeniche al mese la manifestazione e non più di 6 volte l’anno la partecipazione del singolo espositore in due municipi della città
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